Ogni anno in vacanza ci sono due fasi “durissime”: la prima
è la partenza (recupero masserizie utili e pulite, acquisti costosissimi
dell’ultim’ora per le cose indispensabili che
“l’anno-scorso-sono-sicura-di-aver-messo-lì”, assoluta incompatibilità
volumetrica tra il vano bagagli e le borse); la seconda è il rientro. Si può
concludere che se “la parte in mezzo” tra partenza e rientro è meno che
“grandiosa”, il bilancio risulta in perdita netta.
Il rientro in genere avviene in una delle due condizioni: o
si smanetta nel portabagagli sotto il diluvio universale perché era da mesi che
si era dimenticato di piovere, oppure il termometro segna ancora implacabile i
40°C all’ombra e si desidera solo l’aria condizionata dell’ufficio. In entrambi
i casi, al rientro la visione del portone di casa nostra è una specie di
fumogeno che ci costringe di botto a smettere di sonnecchiare sul sedile
dell’auto con il condizionatore a manetta; quando si ha finito la lunga e
noiosa discussione sul tema “chi ha messo via le chiavi di casa, dove le ha
messe?”, finalmente si può scendere e, aprendo la portiera, si intuisce che il
termometro che segna la temperatura esterna all’auto non era rotto: ci si trova
davvero in una specie di forno da pizza (o peggio, se è da due chilometri che
si scatenano i monsoni, ci si trova sotto una specie di getto da autolavaggio);
e in queste condizioni ci aspetta di scaricare una montagna bagagli strizzati
in un vano troppo minuscolo; e questo non è ciò che si può considerare “finire
in bellezza la vacanza”. E se poi sui sedili posteriori si hanno dei
marmocchietti che ronfano beati, va anche aggiunto il teletrasporto-figli, che
include un solenne frigno da esigenze immediate e persistenti dal titolo
“ho-fame/ho-sete/ho-sonno”. Per fortuna nel mio caso gli eredi sono già più
grandicelli e questi sono incubi ricordi lontani, di cui non sento
particolare nostalgia. Rimane la faccenda dei bagagli: un tappeto sconfinato di
borse, più o meno luride o accartocciate, destinate a rimanere in mezzo al
passaggio per ore (e non sempre “l’ora” è l’unità di misura più appropriata),
sopra la polvere e sotto le ragnatele che nelle settimane di assenza hanno
preso alloggio a casa mia.
La lista “da fare”, man mano che i bagagli vengono depositati
in casa, si allunga con la velocità del nostro debito pubblico ed emotivamente,
questa è una cosa che non fa stare sereni. So che mi lamento a pancia piena, ma
generalmente noi, dopo aver trascorso un po’di tempo al mare, ricompattiamo
borse e borsine per un’altra vacanza in montagna. Come dicevo prima, la parte
“in mezzo” è grandiosa, ma la fase “partenza” e la fase “arrivo” necessitano di
braccia da condannati ai lavori forzati con l’organizzazione teutonica di un
gendarme. Incrociando le fasi “rientro dal mare” con la fase “partenza per la
montagna”, inevitabilmente si ingarbuglia tutto in movimenti contraddittori
insiti nella natura stessa dell’attività “disfa bagagli/rifa bagagli”. Si
inizia una produzione prolifica di mucchi di oggetti, distribuiti variamente
per casa, che teoricamente avrebbe lo scopo di suddividere per categorie di
smistamento ed utilizzo, tanto per evitare di portare in montagna pinne e
boccaglio. I mucchi sono il mio incubo diurno e si installano come virus nei
miei programmi onirici di notte. In queste condizioni, in breve il caldo ha la
meglio, la lista “da fare” diventa più lunga dei rotoloni Regina e,
generalmente, già al punto “1” perdo ogni speranza mentre mi accascio
lentamente sui miei mucchi.
Uno dei lavori che detesto maggiormente è il lavaggio della
tenda e di quanto essa contiene: l’ombra della grande quercia sarà anche una
figata, ma il paciugo di resina e salsedine ha il vizio di appiccicarsi ovunque
(per l’anno prossimo proporrò querce finte in plastica ecologica); inoltre la
sabbia si insinua dappertutto e fuoriesce da tutti i posti più assurdi: si
potrebbero eliminare tutte le cave di sabbia se qualcuno si prendesse la briga
di venire a casa mia con un aspirapolvere gigante dopo che sono stata al mare.
In tutto ciò le zanzare sembrano le uniche abitanti felici
di questo posto infernale, in sintonia con il caldo da palude.
A chiunque non sia chiaro come in un algoritmo funzioni il
loop del “go to” può venire a casa mia a vederlo dal vivo: si preleva dal box
un buon numero di borse/valige/borsoni, fintanto che le energie non danno
forfait; poi si procede trasformando la casa in un immenso deposito di mucchi
da lavare e smistare; quando si sono esauriti i borsoni, si torna al punto “1”
dell’algoritmo, ricominciando tutto daccapo. In pratica si finisce per avere la
casa relativamente libera e con i mucchi sotto controllo solo di notte, dopo
una lunga e intensa giornata di lavoro; appena ci si alza dal letto, ci
aspettano i lavori forzati per un’altra impegnativa produzione di mucchi. E
detta così, è vagamente demotivante. Nelle giornate “disfa&rifa” continuo
ad avere in testa i prigionieri nelle navi: quelli sbucciano patate tutto il
giorno. Da seduti. Insieme, chiacchierando tra loro e cantando. Mi piacerebbe
che ci fosse qualche nave sotto mano che volesse prendersi la briga di tenermi
prigioniera per un po’. Ovvio che il mio appello non riguarda i pirati; ho
piuttosto in mente le imprese epiche dei primi del ‘900, quando Shackleton
guidava il suo Endurance tra i ghiacci del Polo, meta ancora inesplorata.
…Ripensandoci, però forse meglio cercare qualche impresa più facile: in questo
momento, la cosa più attraente di un’avventura tra i ghiacci è l’associazione
con le temperature di quelle parti, perché l’idea di passare nove mesi a zonzo
tra le terre di Coats probabilmente renderebbe attraente persino fare la
cavallina tra i miei mucchi. Invece i mucchi, dal punto di vista dei figli,
credo siano vissuti come comodissime trincee dove nascondersi per evitare
compiti delle vacanze e faccende varie. Solo loro riescono a vedere sempre e
comunque il lato vacanziero della cosa. Io invece, date le condizioni e le
premesse, ho la pretesa che la parte “in mezzo” della vacanza debba
necessariamente essere strepitosa. Personalmente tutti mi trovano in forma
smagliante al mio rientro per poi tornare aggrinzita e ricurva lontana dallo
iodio.
Insomma, la fase disfa/smista/lava/rifa-bagagli è una delle
fasi più impegnative dell’estate ed è la scusa che mi serve per potermi
rimpinzare di pizzette e focaccine senza ritegno, sapendo bene di evaporare
tutte le energie accumulate solo nel punto “1” della mia dannata lista.
2 commenti:
Noi al rientro abbiamo trovato il diluvio universale al suo 15° giorno - quindi mancava ancora un bel po' alla fine, ma l'auto aveva già fatto in tempo ad allagarsi.
Lo scaldabagno si era rotto e non avevamo acqua calda.
Mi si sono rotte le infradito preferite - non che con la pioggia torrenziale mi sarebbero state di alcuna utilità, ma ci ero affezionata.
Due giorni di tempo, e ho desiderato non essere mai partita... *sigh
...sigh...
Capisco il momento...
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